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Spectorization

In occasione della recente scomparsa di Phil Spector (1939-2021), pubblichiamo di séguito una lettera immaginaria in cui lo stesso “discusso” produttore discografico ricorda alcuni episodi della propria carriera.

 

Di queste poche righe, scritte dalla cella di un carcere americano, forse alcuni saranno stupiti: sono l’ultima trovata di un’esistenza eccentrica, trascorsa tra sesso, droga, musica. Molti di voi vorranno sapere la verità: la verità è che non ricordo più quanto successe la notte di tanti anni fa… o forse sono io a non voler ricordare. Voi ricordatemi per i meriti artistici.

In un mondo dominato da chitarre, bassi e batterie, ho voluto introdurre un nuovo modo di far musica. Io lo avevo definito come “un approccio wagneriano al rock’n’roll: piccole sinfonie per i bambini”, ma la stampa prese a chiamarlo “il muro del suono”. Si tratta di una tecnica che consiste nell’aggiungere l’orchestra (archi, ottoni, timpani, percussioni) alla base musicale tradizionale. Il tutto viene missato in modo da ottenere un riverbero intenso e potente, in grado di avvolgere l’ascoltatore in un’esperienza d’ascolto unica. In Inghilterra, la mia creatività si incontrò con quella di John, l’amico di serate folli che mi fece produrre l’ultimo album della sua rock band. Anche gli altri componenti erano d’accordo. I nastri che mi consegnarono contenevano ore ed ore di registrazioni, ascoltati interamente. Si percepiva che qualcosa non andava più nel rapporto tra i quattro: non erano più affiatati come un tempo, e spesso interrompevano le prove per discutere animatamente. Tuttavia, dal punto di vista della tecnica musicale rimanevano i migliori, tant’è che riuscii ad estrapolare materiale di qualità, il cui carattere grezzo venne arricchito dall’aggiunta della base orchestrale. Tutti i membri della band furono felici del mio lavoro, eccetto uno di loro che riteneva le sonorità troppo altisonanti e ampollose. Credo che Paul abbia criticato soprattutto il mio mix di ‘The Long and Winding Road’ perché aveva concepito quel brano in maniera più essenziale, col solo pianoforte e la batteria ad accompagnare la sua limpida voce. Voleva un disco senza fronzoli in modo da dare l’impressione di un’esibizione dal vivo. Ma nessuno mi aveva dato istruzioni in merito, per cui mi sentii libero di operare secondo i miei gusti. Il disco fu pubblicato ugualmente e vinse il premio come miglior LP inglese del 1970. Negli anni seguenti, continuai a collaborare con John e con George. Quest’ultimo aveva raccolto una gran quantità di brani inediti, per lo più composti durante il periodo trascorso nella band.

Fig. 1: Phil Spector e George Harrison durante le sessioni di “All things Must Pass” (1970)

Me li fece ascoltare durante un uggioso pomeriggio londinese. Rimasi stupefatto da quelle canzoni, una più bella dell’altra! Ci vollero tre LP per contenere l’intero ‘All Things Must Pass’, i cui brani furono sottoposti ad un duro lavoro di produzione mediante la tecnica del riverbero e del muro del suono. Mi accorsi subito delle potenzialità commerciali di ‘My Sweet Lord’, una canzone che aveva il tipico ritmo “da hit”. Inizialmente, George non voleva pubblicarla come singolo perché temeva di essere attaccato (o quantomeno non compreso) per le tematiche religiose affrontate. Alla fine cedette, e il singolo fu un successo planetario: rimasto ai vertici della classifica per ben cinque settimane, ‘My Sweet Lord’ fu il 45 giri più venduto dell’anno. In realtà, in quello stesso periodo dovevo produrre anche il nuovo album da solista di John, ma non ebbi molto tempo per presiedere alle registrazioni. Ero improvvisamente scomparso dalla circolazione, come spesso amavo fare, senza avvisare nessuno. John, disperato dall’assenza di notizie, fece pubblicare sui giornali annunci che recitavano “Phil! John è

Fig. 2: Spector in studio di registrazione con John Lennon (1970)

libero questo week-end”! Alla fine, entrai nello studio di registrazione il 9 Ottobre, quasi al termine delle sessioni. Per questo motivo, credo, i musicisti della Plastic Ono Band non mi percepirono come il vero produttore del disco. Quando mi vide, Yoko dovette pensare «oh no! Adesso questo qui viene a dirci cosa dobbiamo fare… stava andando tutto così bene!». Alla fine, tutti accettarono di buon grado la mia presenza ed il mio contributo. Rimasero colpiti soprattutto dalla parte al pianoforte che suonai in ‘Love’: Klaus venne a dirmi che avevo suonato meravigliosamente, in maniera molto melodiosa. Durante ogni sessione, John mi ripeteva sempre: «voglio un album semplice, quindi lascia da parte tutte quelle stravaganze per cui sei conosciuto!». ‘Plastic Ono Band’, infatti, era il suo disco più personale, ed era caratterizzato da arrangiamenti semplici che mettevano i testi in primo piano. Avevo capito, insomma, che non ci sarebbe stato tanto spazio per il mio amato riverbero. John mi concesse di intervenire sulle parti vocali: non gli era mai piaciuta la propria voce, e cercava sempre di modificarla. Spesso diceva «facciamola nasale!», e si tappava il naso con le dita. John mi disse che voleva una voce alterata e potenziata dall’effetto eco, ed io risposi: «hai trovato la persona giusta: io sono l’uomo dell’eco!». Per questo motivo i nastri sono pieni di eco nelle parti vocali. Solo in un punto preciso non volle l’effetto, ovvero in ‘God’, quando canta “io credo solo in me stesso, in Yoko e in me stesso”. Era il suo verso più intimo e sincero, che bene esprimeva le sensazioni di quel periodo.

Potrei raccontare tanti altri episodi, ma penso che il ricordo di quei pochi mesi sia sufficiente a far comprendere il mio carattere e la mia carriera. Conoscevo già il mondo della musica, avevo cantato e sperimentato il muro del suono nei primi anni Sessanta, ma in quel periodo raggiunsi l’apice della carriera attraverso la collaborazione con i musicisti più famosi di sempre. Il mio destino sarebbe stato dietro alle consoles, e il mio compito quello di conferire ariosità e volume alle tradizionali composizioni rock. Ho svolto il mio lavoro con passione, anche sapendo che il mio nome sarebbe stato relegato alle note a margine e, dunque, letto da pochi. Ho sempre voluto vivere col volume al massimo: davanti al mixer mi sentivo vivo così come davanti ad un bossolo appena fuoriuscito dalla mia pistola. Nell’arco di pochi anni, sono stato capace di produrre ‘Imagine’ e di rubare a John i nastri di un altro disco in preparazione (sui quali, piccolo dettaglio, si udiva il rumore dei miei spari contro il soffitto). Al termine della mia vita terrena, mi sia concesso il rivendicare un posto in prima fila nel panorama musicale degli anni Sessanta e Settanta. Adesso non ho più nulla, ma voglio lasciare in eredità un problematico interrogativo: possono gli esecrabili comportamenti di un personaggio pubblico cancellare del tutto il suo lascito artistico?

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