Vai al contenuto

La lezione di Sciascia

Proprio nei giorni del centesimo anniversario della nascita di Leonardo Sciascia (8 Gennaio 1921), sulla maggior parte delle testate giornalistiche italiane è rimbalzata la notizia del fortuito ritrovamento di una prima edizione de ‘Il giorno della civetta’. L’autore della scoperta ha raccontato di aver trovato una scatola abbandonata piena di libri antichi nei pressi di un cassonetto dell’immondizia a Firenze. Il fatto, in realtà, risale ad alcuni anni fa, quando l’uomo, dopo aver sottratto quei testi ad un triste destino, li aveva riposti nel sicuro della propria libreria casalinga. Nel Gennaio 2021, il nostro uomo si accorge che, tra quei libri, c’è una prima edizione del romanzo di Sciascia, arricchita da una dedica autografa apposta dallo stesso autore. La riproduzione di un dipinto di Renato Guttuso (Paese del latifondo siciliano, 1956) campeggia sulla copertina, semplice ed elegante. Ma il fascino del libro antico non si esaurisce nella grafica esterna, bensì investe il contenuto stesso del testo. E le parole di Sciascia, ne siamo certi, continuano a risuonare ancora ai nostri giorni.

Il 10 Gennaio 1987, sulle pagine del ‘Corriere della Sera’, viene pubblicato un articolo di Sciascia intitolato ‘I professionisti dell’antimafia’, dedicato al rapporto tra politica, popolarità e lotta alla mafia. Lo scrittore siciliano non era nuovo alla trattazione di questi temi, se pensiamo che già nel 1957 aveva definito la mafia come «una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza». Tuttavia, prima de ‘Il giorno della civetta’ (1961), tale fenomeno non era mai stato protagonista di un’opera letteraria. In un mondo come quello attuale, in cui ogni giorno sentiamo parlare di organizzazioni criminali di stampo mafioso, potrebbe sfuggirci la portata rivoluzionaria del romanzo di Sciascia. Nell’Avvertenza dell’edizione del 1972, lo scrittore ricordava che nel 1960 il governo nazionale «non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava. Ma la mafia era ed è altra cosa: un sistema che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo definire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello stato, ma dentro lo stato». In quell’epoca, lo Stato negava esplicitamente l’esistenza del fenomeno mafioso, nonostante prove documentarie che testimoniavano l’esatto contrario[1]. ‘Il giorno della civetta’ ha il merito di accendere i riflettori non solo sulla mafia, ma anche sul sistema di connivenze ed infiltrazioni nella compagine statale: le indagini di uno zelante capitano dei carabinieri, dopo aver fatto emergere l’inquietante legame tra un potente capomafia e un ministro del governo, approdano all’arresto del primo. Tuttavia, il perverso meccanismo delle connivenze porta al trasferimento del capitano ed alla scarcerazione del boss, resa possibile grazie agli agganci politici. Da segnalare un’importante intuizione di Sciascia, che nelle pagine del romanzo fa proporre al capitan Bellodi l’adozione di metodi di indagine maggiormente efficaci che possano consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie dei personaggi indagati. Secondo lo scrittore, bisogna penetrare nelle maglie del segreto bancario, indagare sui patrimoni e seguire gli spostamenti di denaro, secondo una strada percorsa decenni dopo dai giudici Falcone e Borsellino. Senza dubbio, il successo del romanzo di Sciascia ha contribuito alla progressiva nascita di una coscienza nazionale circa la criminalità organizzata, suggellata nel 1982 dalla creazione del reato di associazione mafiosa. Era il periodo precedente al primo grande maxi-processo di Palermo (1986-1992): tutto il paese era percorso dall’intensa ondata dell’indignazione e dell’antimafia. In questo contesto si inserisce l’articolo del 1987, nel quale Sciascia giunge ad una conclusione assai scomoda e tutt’altro che storica: il pericolo dell’antimafia (intesa come strumento per fare carriera e procurarsi il consenso dell’opinione pubblica) è vivo ancora al giorno d’oggi. Tanti sindaci marciano in prima fila nei cortei antimafia, parlano di sensibilizzazione popolare… e finiscono indagati per collusione. Dal romanzo del 1961 all’articolo del 1987 muta l’obiettivo polemico (nel primo caso le connivenze della DC, nel secondo le strumentalizzazioni politiche dell’antimafia), ma uguale è l’ispirazione e la convinzione ideale.

Col proprio sguardo acuto e libero, Sciascia fu tra i primi a capire e a denunciare fenomeni che, per noi uomini del XXI secolo, non costituiscono – purtroppo – un retaggio del passato, ma una piaga ancora presente. Proprio nei giorni del centesimo anniversario della nascita di Sciascia si è aperto il secondo grande maxiprocesso della storia d’Italia. Iniziato il 13 Gennaio in un’aula-bunker (costruita per l’occasione) di Lamezia Terme, il processo ha numeri da record: trecentoventicinque imputati per quattrocento capi d’accusa, centinaia di avvocati e parti civili. Le premesse per il processo sono state poste nel Dicembre 2019, quando un blitz di tremila carabinieri portò alla cattura di oltre trecento boss e affiliati alle cosche della ‘ndrangheta e dei loro collegamenti con il mondo istituzionale, politico, imprenditoriale e della massoneria deviata. Già, quella massoneria deviata con la quale la mafia ha rapporti sempre crescenti: come ha ricordato Nicola Morra (Presidente della Commissione Nazionale Antimafia), «la mafia ha interesse a relazionarsi con il potere e per questo è sempre più forte e questo processo lo dimostra». Il processo, dunque, non riguarda solo la Calabria, ma anche l’Italia e il mondo intero, perché il mondo intero è ormai l’orizzonte d’azione delle mafie. Anche se impegnati ad ascoltare le ultime notizie sul coronavirus o sull’insensata crisi politica, non facciamo passare sotto silenzio lo svolgimento del maxi-processo. È importante ricordare che la parte sana del nostro Paese sta combattendo in prima fila per colpire le mafie con le armi della giustizia. Guardiamoci bene dalle insidie di un’antimafia di facciata e, proprio come avvenne durante il maxi-processo palermitano, auspichiamo il formarsi di una vera e sincera coscienza di massa volta a combattere violenza ed illegalità.

[1] Tra queste ultime, occorre ricordare il cosiddetto rapporto Scotten (1943) intitolato ‘The Problem of Mafia in Sicily’ (noto soprattutto grazie al film ‘In guerra per amore’ del 2016). Il documento merita qualche riga di commento: dopo lo sbarco in Sicilia, i boss mafiosi dell’isola favorirono l’assedio degli americani imponendo alle milizie fasciste la resa senza opposizione armata. Gli americani ricompensarono i boss affidando loro cariche importanti: in molti paesi siciliani, i boss mafiosi divennero sindaci, spesso sotto la bandiera della nascente DC. Insomma, gli americani lasciarono un’isola liberata dal fascismo ma in preda ad un peggior tipo di dittatura. Delle possibili soluzioni enucleate da Scotten («un’azione diretta, stringente e immediata per controllare la mafia; una tregua negoziata con i capimafia; l’abbandono di ogni tentativo di controllare la mafia in tutta l’isola»), l’opzione scelta dal governo americano fu l’ultima, ciò che permise l’infiltrazione della mafia nelle strutture statali.

error: Content is protected !!