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Dante turista e studente a Bologna

Fig. 1: il pozzo dei giganti in un’illustrazione di Gustave Doré (1861).

Qual pare a riguardar la Carisenda

sotto ’l chinato, quando un nuvol vada

sovr’essa sì, ched ella incontro penda;

 

tal parve Anteo a me che stava a bada

di vederlo chinare, e fu tal ora

ch’i’ avrei voluto ir per altra strada

(Inf. XXXI 136-141)

Dante e Virgilio nel pozzo dei Giganti

Nel canto XXXI dell’Inferno, Dante e Virgilio passano dalle Malebolge al nono cerchio, dove troveranno le anime dei traditori immerse nel lago ghiacciato del Cocìto. A separare l’ottavo dal nono cerchio è il cosiddetto “pozzo dei Giganti”. A causa della penombra, Dante inizialmente non lo vede e, udito il suono di un corno, pensa di trovarsi di fronte ad una città turrita. L’intervento di Virgilio rivela che in realtà «non son torri, ma giganti» (Inf. XXXI 31). A questo punto, Dante è colto da una paura che si accresce man mano che gli si rivela chiara la visione di quei corpi enormi, conficcati nel pozzo dall’ombelico in giù e visibili solo nella parte superiore. Fortunatamente, dichiara il poeta, la natura ha smesso di forgiare creature che uniscono la ragione alla malvagità e alla forza fisica: «dove l’argomento della mente/s’aggiugne al mal volere e a la possa,/nessun riparo vi può far la gente» (vv. 55-57). Interessante è l’incontro con Nembrot, il quale, appena scorge Dante, pronuncia parole incomprensibili («Raphèl maì amècche zabì almi», v. 67): si tratta di una sorta di contrappasso per cui il gigante, costruttore della torre di Babele e dunque responsabile della confusione delle lingue umane, è adesso condannato alla totale incomprensibilità[1]. Infine, appare Anteo che, pregato da Virgilio, si piega verso i due pellegrini per prenderli e deporli nel fondo del pozzo, sulla distesa di ghiaccio. L’immagine di Anteo che si china verso Dante ispira al poeta un paragone con la torre bolognese della Garisenda (vv. 136-141; la forma dantesca, con la C sorda, è dovuta all’uso toscano del tempo). In particolare, viene ricordata la sensazione straniante di chi osserva la torre dalla parte da cui pende («’l chinato», v. 137) e ha l’impressione che essa stia crollando per via del movimento delle nuvole.

Dante studente dell’Alma Mater?

Negli anni della giovinezza, Dante aveva visitato Bologna, città di cui aveva sicuramente assaporato il dinamico ambiente universitario. Lì il poeta fiorentino vide le disputazioni pubbliche di stampo filosofico durante le quali un maestro, supportato da un certo numero di allievi, proponeva una questione e la discuteva affrontando le obiezioni dei presenti. Del resto, a quel tempo lo Studium felsineo offriva un insegnamento filosofico unico in Italia. Emilio Pasquini riteneva che Dante avesse frequentato l’Università di Bologna come studente “fuori corso”. Anche se non è possibile affermare con certezza che Dante si fosse pagato la frequenza alle lezioni, tuttavia una certa esperienza del mondo universitario sembrerebbe esser confermata dalle polemiche contro quegli intellettuali che facevano del proprio sapere una fonte di guadagno[2]. Dante forse non conservò un buon ricordo delle lezioni universitarie bolognesi, a tal punto che, al ritorno a Firenze, iniziò a leggere libri e a studiare per conto proprio.

Fig. 2: il sonetto della Garisenda (Archivio di Stato di Bologna).

Di certo, la memoria di Bologna non sembra legata allo studio, ma alle attrazioni turistiche. La vista delle due torri è presente anche nel sonetto della Garisenda: gli occhi di Dante sono colpevoli perché hanno ammirato le due torri trascurando la ragazza della famiglia Asinelli, «ch’è la maçor dela qual se favelli» (v. 6). Questo sonetto rappresenta la più antica attestazione di una rima di Dante, dal momento che è stato trascritto nel 1287 nei Memoriali del Comune (in una veste fortemente ‘bolognesizzata’). I registri notarili bolognesi contengono altro materiale dantesco, collocato negli intervalli dei documenti per evitarne eventuali falsificazioni.

Le torri cittadine nel Medioevo

Fig. 3: Bologna, le torri Asinelli e Garisenda. Cartolina, Fondo Brighetti.

La torre Garisenda (quella di sinistra nella Fig. 3), costruita nel 1110 dalla famiglia bolognese dei Garisendi, è situata in pieno centro cittadino. L’originaria altezza (circa 60 metri) fu ridotta nel 1353 agli attuali 47 metri e mezzo a causa della notevole pendenza, dovuta ad un cedimento del terreno avvenuto durante i lavori di costruzione. Nella società trecentesca, le famiglie comunali più facoltose gareggiavano nell’erezione di torri, la cui altezza doveva essere direttamente proporzionale al potere e alla grandezza di chi le possedeva. Dante era fortemente critico verso questa situazione: le città avrebbero dovuto deporre ogni competizione interna ed esterna e sottoporsi all’autorità pacificatrice dell’imperatore. Pertanto, si comprende come il paragone tra il gigante e la torre serva a criticare implicitamente la politica comunale del tempo: se la smisuratezza dei giganti simboleggia l’opposizione alla divinità, l’altezza sempre più pronunciata delle torri indica la resistenza dei comuni al potere imperiale.

[1] Molti studiosi, tra cui il Bondioni, ricordano che in realtà da nessuna parte si dice che Nembrot fu responsabile della costruzione della torre di Babele. L’associazione deriva forse dalla vicinanza nella Bibbia dei paragrafi rispettivi e dal fatto che Nembrot fu re di Sennaar, il luogo mesopotamico dove sorgeva la mitica torre.

[2] Vd. ad esempio Cv. I ix 3: «e a vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare».

 

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