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Regalità medievale: le “sacrate ossa” dei re francesi

Fig. 1: Unzione di re Luigi IX (1226-1270)

trova’mi stretto ne le mani il freno

del governo del regno, e tanta possa

di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,

 

ch’a la corona vedova promossa

la testa di mio figlio fu, dal quale

cominciar di costor le sacrate ossa

(Purg. XX 55-60)

Ugo Capeto e l’origine della cupidigia capetingia

Queste parole sono pronunciate da Ugo Capeto, il capostipite della dinastia dei Capetingi, incontrato da Dante nella quinta cornice del Purgatorio. Il poeta si trova tra gli avari e i prodighi, la cui pena è abbastanza eloquente: sono costretti a guardare per terra (dal momento che in vita non vollero distogliere lo sguardo dai beni terreni) e ad avere mani e piedi legati (dal momento che in vita furono troppo legati alla materialità). Dante ode uno spirito rammentare esempi di povertà e di generosità (il ricordo di exempla positivi favorisce il cammino di purgazione): vengono citati rispettivamente la Vergine Maria, che fu assai povera (come si può vedere da «quello ospizio/ dove sponesti il tuo portato santo», vv. 23s.), e Fabrizio Luscino, console romano che preferì possedere la virtù nella povertà piuttosto che una grande ricchezza con disonestà (vv. 25-27). Il poeta è particolarmente colpito da queste parole che sembrano fare eco all’invettiva iniziale contro la cupidigia, antica lupa che, più di ogni altra bestia, fa strage di anime per via di una fame insaziabile (vv. 10-15). Pertanto, Dante si accosta a quello spirito, e lo prega affinché riveli la propria identità. Come di consueto, la risposta si articola dapprima in termini generici, per culminare con l’enunciazione del nome proprio. Infatti, l’anima si presenta come la «radice de la mala pianta/che la terra cristiana tutta aduggia/sì che buon frutto rado se ne schianta» (vv. 43-45), ovvero “il capostipite di quella malvagia dinastia che corrompe l’intera cristianità, tanto che da essa si coglie un buon frutto soltanto raramente”. Da lui, Ugo Capeto (941-996) umile figlio di un mercante di bestiame, discende tutta quella schiatta capetingia ancora al potere che ha prodotto tanti re Filippo o Luigi[1]. Egli si trovò circondato da tanta potenza e tanta approvazione che, alla sua morte, la corona regale vacante venne innalzata sulla testa del figlio Roberto, dal quale ebbe inizio la discendenza dei re consacrati (vv. 55-60). Se questi primi regnanti non si segnalarono né per azioni buone né per azioni cattive, furono i successivi a dare inizio alla degenerazione morale della casata. Dunque, Capeto “profetizza” il tradimento di Carlo di Valois ai danni di Firenze, la vergognosa vendita della figlia di Carlo II d’Angiò ad opera dello stesso padre, l’oltraggio di Filippo il Bello contro papa Bonifacio VIII, passato alla storia come lo schiaffo di Anagni (vv. 70-90).

Le «sacrate ossa» dei Capetingi

Fig. 2. Un re di Francia si accinge a toccare le scrofole. Dipinto attribuito a Bernard Van Orlev (inizio XVI sec.)

Sarà interessante soffermare l’attenzione sull’aggettivo “sacrato”. Scartata l’ipotesi di un uso nell’accezione negativa di ‘esecrando’, il termine rimanda senza dubbio al sacre de Reims, ovvero alla consuetudine di consacrare i dinasti francesi all’interno della Cattedrale di Reims. Si trattava di una suggestiva cerimonia che prevedeva l’unzione del nuovo re con l’olio della sacra ampolla conservata nella Cattedrale. Tuttavia, occorre notare che tale rito non era stato iniziato dai sovrani Capetingi, bensì dai predecessori Carolingi. Questi ultimi, subentrando alla nobile e prestigiosa dinastia merovingica, fecero uso del rituale dell’unzione come forma di legittimazione del loro potere ancora instabile (perché da poco assunto). La consuetudine è in realtà antichissima: risale, addirittura, ai principi ebrei e, più in generale, è propria del vecchio mondo orientale, nel quale «i re erano considerati […] come personaggi sacri […]. Al loro avvento erano unti su alcune parti del corpo con un olio precedentemente santificato» (Bloch 1989, 47)[2]. Se, dunque, tale rituale ebbe inizio con i Carolingi, perché Dante ne parla a proposito dei Capetingi? Forse si tratta di un altro errore del poeta che, come si è visto sopra, aveva poca familiarità con l’Alto Medioevo? No, niente di tutto ciò. Probabilmente, Dante allude ad una innovazione introdotta proprio dal figlio di Ugo Capeto, ovvero Roberto II detto il Pio, per legittimare il proprio instabile potere (evidentemente, la sola pratica dell’unzione non bastava più). In riferimento a Roberto II, il monaco Helgaud afferma: «la virtù divina accordò a quest’uomo perfetto una grazia grandissima: quella di guarire i corpi; toccando le piaghe dei malati e segnandoli col segno della santa croce con la sua piissima mano, egli li liberava dal dolore della malattia». Questo sovrano, dunque, iniziò a curare le malattie dei sudditi, tutte quante indistintamente, col semplice tocco della mano. Tale potere, esclusivo della casata capetingia, si sarebbe col tempo specializzato per guarire da una particolare affezione corporea assai diffusa a quel tempo ma poco mortale: l’adenite tubercolare (meglio conosciuta come scrofola o come male del re), un’infiammazione delle linfoghiandole del collo che provoca maleodoranti suppurazioni cutanee. Il fenomeno dei re taumaturghi, ben descritto da Marc Bloch nell’omonimo libro, fu esclusivo della monarchia francese fino al 1100 circa, quando venne imitato anche dai sovrani inglesi. La pratica, che presuppone una radicata fede nel carattere divino dei sovrani e nell’esistenza di famiglie ereditariamente sacre, resistette a lungo, per cadere soltanto sotto i progressivi colpi di Rinascimento ed Illuminismo. Per ritornare al passo dantesco, non è possibile avere la certezza che il poeta alluda alla pratica taumaturgica. D’altro canto, però, non si può non ammettere che Dante non avesse mai sentito parlare del tocco regale, assai noto al suo tempo come testimoniato dalle fonti documentarie. Queste ultime, infatti, attestano che tra il 1307 ed il 1308 almeno sedici italiani andarono in Francia a farsi toccare e guarire.

[1] Gli errori e le confusioni presenti nel racconto dantesco (il Capeto non era nato da un beccaio di Parigi, ma dal duca di Francia Ugo il Grande) sono dovuti da un lato ad una poco corretta conoscenza del periodo alto-medievale, dall’altro alla volontà di confutare la tradizione che vedeva i Capetingi discendere da Carlo Magno. Infatti, la coerenza del dettato dantesco richiedeva che Ugo fosse l’origine del peccato di cupidigia trasmessosi a tutta la dinastia, non certo Carlo Magno, sempre presentato nella Commedia come una figura positiva (cf. Par. V 94-96).

[2] Marc Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 19892 (19731, ed. or. Strasbourg 19241, Paris 19833).

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