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Dante barattiere?

Fig. 1: Dante e Virgilio tra i barattieri. Illustrazione di Federico Zuccari.(1586)

Per l’argine sinistro volta dienno;

ma prima avea ciascun la lingua stretta

coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.

(Inf. XXI 136-139)

 

 

Dante e Virgilio tra i barattieri infernali

I canti XXI-XXII dell’Inferno, dedicati al peccato di baratteria, sono comunemente considerati una sorta di intermezzo comico nella drammatica descrizione delle Malebolge, dal momento che sono caratterizzati da un linguaggio assai colorito, ricco di paragoni animaleschi e di espressioni triviali. Del resto, Dante stesso, nell’incipit del canto XXI, connota il proprio poetare attraverso il sostantivo comedìa, termine che indica propriamente un’opera letteraria caratterizzata da un linguaggio basso e comico (in opposizione alla elevata tragedìa, il cui esempio più eloquente è rappresentato dal poema epico virgiliano). Il canto XXI si snoda in un susseguirsi di scene riprese dalla vita quotidiana, alcune delle quali assumono una piega esilarante. Si veda, ad esempio, la descrizione dell’arsenale di Venezia (che serve ad introdurre l’ambiente nel quale sono puniti i barattieri, costretti a stare immersi in un mare di pece; cf. vv. 7-15) oppure il paragone tra i diavoli che piombano sui dannati costringendoli a tuffarsi nella pece e i cuochi che ai loro sguatteri fanno immergere la carne nel pentolone con gli uncini, affinché non salga in superficie (vv. 52-57). La comicità risalta soprattutto nella beffarda e malvagia ironia dei Malebranche, i quali si prendono gioco non solo di un dannato appena arrivato, ma anche di Dante e Virgilio. Si tratta, in fin dei conti, di una combriccola crudele, in grado di spaventare i due pellegrini. Dapprima, è Virgilio a dover mostrare una poco credibile «sicura fronte» (v. 66) davanti ai diavoli che rivolgono gli uncini contro il poeta latino, paragonato ad un mendicante che, nel chiedere l’elemosina, viene assalito da un branco di cani rabbiosi. Anche Dante è colto da paura, la stessa paura provata dai soldati pisani che, usciti dal castello di Caprona dopo aver patteggiato la resa, si trovarono in mezzo ai nemici fiorentini (vv. 91-96). Nonostante l’aspetto malvagio, l’azione dei diavoli non conferisce atmosfera drammatica al canto: prevale il tono comico delle frequenti zuffe tra i diavoli, i cui nomi (Malacoda, Cagnazzo, Barbariccia, Draghignazzo, Graffiacane) sono degni delle più riuscite maschere della commedia dell’arte. In linea col tono generale del canto è la sua conclusione, ovvero il particolare “sonoro” di Malacoda che segnala l’imminente partenza della combriccola (v. 139).

Dante barattiere?

Attraverso le armi del sarcasmo e dell’ironia, Dante assume un atteggiamento distaccato che gli permette la giusta distanza dalle tristi vicende personali. Il peccato di baratteria riguarda il poeta fiorentino molto da vicino, dal momento che egli fu condannato proprio per concussione. I fatti prendono inizio nel Novembre del 1301, quando Carlo di Valois (fratello del re di Francia) con l’avallo di papa Bonifacio VIII entrò in armi a Firenze con l’obiettivo di distruggere la fazione dei Guelfi Bianchi (alla quale apparteneva Dante). Dopo lunghe giornate di uccisioni e devastazioni, i Neri assunsero il potere ed istruirono una serie di processi politici contro gli avversari, tra i quali vi era anche il Sommo poeta che aveva ricoperto l’importante carica di priore dal Giugno all’Agosto del 1300. Alla prima sentenza (27 Gennaio 1302) che decretava un’ingente multa si aggiunse un provvedimento del 10 Marzo, nel quale si legge che «Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia».

Ma al di là della condanna, il poeta era colpevole o innocente? Non è possibile dirlo con certezza. Anche se la maggior parte degli studiosi crede nell’innocenza di Dante (forse oggetto di eccessiva idealizzazione da parte di chi dimentica che il poeta, in quel periodo, era principalmente un uomo di potere), il dibattito rimane aperto. Una curiosa polemica è apparsa il 19 Gennaio 2021 sul quotidiano ‘La voce di Parma’. A pag. 6, infatti, è contenuto un intervento (intitolato ‘Su Dante non si raccontino frottole. Risposta ad Alessandro Barbero’) con cui Enrico Malato si scaglia contro un’«illazione maliziosa» dello storico torinese, reo di aver gettato «una luce ambigua e sinistra sull’uomo e sull’opera sua». La dichiarazione incriminata riguarda il processo ai danni di Dante. Afferma Barbero (2020, 156s.[1]): «è inevitabile concludere che si vollero trascinare in giudizio soprattutto quelli che potevano essere condannati con qualche verosimiglianza. Dante barattiere, per lucro privato? Certo no; ma un Dante che trovandosi al governo accetta di fare qualche pressione nell’interesse del partito, per evitare che un certo incarico vada alla persona sbagliata, o per garantire un finanziamento agli amici, be’, questo francamente non appare proprio impossibile». A tali parole, Malato grida all’eresia e tuona affermando che «non c’è indizio alcuno che Dante possa aver fatto qualche favore a qualcuno, mentre c’è certezza di un rigore morale che non ammette deroghe, per il quale soffrì vent’anni di ingiusto e doloroso esilio: rinunciando addirittura al rientro in patria, quando gli fu offerto alla condizione di una pratica che poteva implicare un riconoscimento di responsabilità. Dante rigettò con sdegno l’offerta, rivendicando la propria innocenza e la conseguente decisione di non tornare più a Firenze». L’argomentazione di Malato è assai pertinente: non esistono prove a favore della colpevolezza di Dante, e l’atteggiamento tenuto dal poeta negli anni dell’esilio sembra scagionarlo da ogni colpa. Tuttavia, bisogna ricordare che, a rigore, non esistono neppure prove a favore dell’innocenza; allora ben venga la formulazione di teorie che, se fondate, permettano la prosecuzione del dibattito. La selettività delle epurazioni, che non colpirono la maggior parte dei priori di quegli anni, è l’elemento che consente la verosimiglianza dell’ipotesi di Barbero. Quest’ultima, tra l’altro, risulta coerente con un’importante acquisizione della monografia, secondo cui Dante avrebbe modificato alcuni particolari della propria biografia adattandoli alle convenienze del momento. Ad ogni modo, ciò che accomuna Malato e Barbero è il ritenere il processo contro Dante un processo di tipo politico: «anche se sotto la vernice d’un processo per baratteria formalmente corretto nessuno si preoccupava di nascondere che le colpe degli imputati erano schiettamente politiche. Fu un processo iniquo? Senza dubbio: il nuovo regime si vendicava dei suoi nemici» (Barbero 2020, 157).

[1] A. Barbero, Dante, Laterza, Roma-Bari 2020.

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