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«Amore segnoreggiò la mia anima»: Dante e Beatrice

Fig.1: Beatrice Portinari in un dipinto di Marie Spartali Stillmn (1895).

 

L’amico mio, e non de la ventura,

ne la diserta piaggia è impedito

sì nel cammin, che volt’è per paura.

(Inf. II 61-63)

 

 

 

L’intervento divino per la salvezza di Dante

All’inizio del secondo canto dell’Inferno, Dante è tormentato da un dubbio circa l’impresa che si accinge ad affrontare. Prima di lui, solo due personaggi ebbero la ventura di compiere un viaggio oltremondano da vivi, ovvero Enea e San Paolo. Il primo era sceso negli inferi per incontrare il padre Anchise, il quale gli aveva preannunciato un glorioso destino; il secondo venne innalzato da Dio fino in Paradiso affinché la propria fede fosse consolidata. In entrambi i casi, si trattava di viaggi ben motivati: Enea avrebbe fondato Roma (città sede di un vasto Impero e, successivamente, della corte papale), mentre San Paolo avrebbe evangelizzato l’intera comunità cristiana attraverso una capillare opera di predicazione. Insomma, la grazia ricevuta da Enea e da San Paolo aveva rivestito enorme importanza per il destino civile e cristiano dell’intera umanità. Logico risulta, pertanto, il dubbio di Dante: «ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?/ Io non Enëa, io non Paulo sono;/me degno a ciò né io né altri ’l crede» (Inf. II 31-33). In altre parole, il dubbio di Dante può essere sintetizzato mediante la seguente domanda: quale disegno divino concede ad un anonimo peccatore di porsi come terzo in questa gloriosa impresa? La risposta a tale interrogativo è affidata al discorso diretto di Virgilio, il quale ricorda che, mentre si trovava nel Limbo (v. 52: «tra color che son sospesi»), fu chiamato da una donna «beata e bella» (v. 53) i cui occhi lucevano più di una stella. Si tratta, com’è noto, di Beatrice, che qui appare nella Commedia per la prima volta. La scena è calata in un’atmosfera dal forte sapore stilnovistico, come si evince dagli atteggiamenti di Beatrice (connotata come dolce e santa) e di Virgilio (una sorta di vassallo della donna), nonché dalle scelte lessicali dantesche (v. 53: «beata e bella»; v. 56: «soave e piana»; v. 57: «angelica voce»). Beatrice, racconta ancora Virgilio, era rimasta profondamente turbata dal traviamento di Dante, definito «l’amico mio» (v. 61), ovvero ‘colui che mi amò’ in maniera disinteressata. L’ordine della donna è chiaro: col suo parlar savio e accorto, Virgilio è chiamato a soccorrere Dante, così che Beatrice possa trovare conforto per la salvezza del proprio amato. Come verrà spiegato più avanti (vv. 94-108), la stessa Vergine Maria, commossa all’idea che Dante corresse pericoli nella selva oscura, si era interessata per prima dello sventurato pellegrino, invocando l’intervento di santa Lucia[1]. Dunque, quest’ultima si era rivolta a Beatrice invitandola a soccorrere «quei che t’amò tanto,/ch’uscì per te de la volgare schiera» (vv. 104s.). Con questa frase, la santa protettrice della vista sintetizza perfettamente la natura del sentimento di Dante: fu proprio l’amore provato per questa creatura angelicata a nobilitare l’animo del poeta, elevandolo verso le cose divine e in tal modo distinguendolo dalla schiera degli uomini comuni.

Dante e Beatrice: che storia!

Fig.2: Il primo incontro tra Dante e Beatrice in una cartolina pubblicitaria di inizio ‘900.

Beatrice era figlia di Folco Portinari, uomo politico attivo nella Firenze di fine Duecento. Doveva essere nata attorno al 1266, se è vero che nella primavera 1274, all’epoca del primo incontro con Dante, aveva appena compiuto gli otto anni. L’episodio è raccontato nella Vita Nova, opera che raccoglie numerose rime di amor cortese inserite in una cornice narrativa in prosa i cui eventi si estendono dalla giovinezza del poeta fino al periodo subito successivo alla morte di Beatrice. I dettagli del primo incontro non sono molti: Dante afferma soltanto che la fanciulla «apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia» (VN II). Maggiori dettagli sono forniti da Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (I 30s.), nel quale si narra che, in occasione di Calendimaggio, Folco Portinari «aveva i circustanti vicini raccolti nella propria casa a festeggiare». Tra questi c’era Alighiero assieme al figlioletto Dante, dal momento che «i fanciulli piccoli, e spezialmente a’ luoghi festevoli, sogliono li padri seguire». Boccaccio scrive che l’incontro tra Dante e Beatrice avvenne durante quella giornata di festa, in uno dei tanti momenti di gioco che caratterizzavano le pause tra le varie portate gastronomiche. Gli effetti della visione di Beatrice sono descritti da Dante come una vera e propria tempesta interiore che coinvolgeva tutti gli spiritelli presenti nel corpo umano, alla fine costretti ad arrendersi all’irresistibile potenza di Amore. Per dirla con le parole del poeta fiorentino, «d’allora innanzi … Amore segnoreggiò la mia anima» (VN II). Negli anni seguenti, Dante tentò più volte di rivedere Beatrice, ma invano: a quei tempi, infatti, a Firenze vigeva una rigida separazione tra i sessi. Nel 1283 (nove anni dopo il primo incontro) i due si incrociarono per strada: Dante «era ancora un adolescente pieno di desideri insoddisfatti» (Barbero 2020, 75), mentre Beatrice era già sposata con Simone de’ Bardi, un magnate appartenente ad una famiglia di grandi banchieri. Nel giorno del secondo incontro, la ragazza apparve «vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade» (VN III). Il poeta, in preda al panico, distolse lo sguardo; Beatrice, invece, salutò. L’udire per la prima volta la voce della propria amata spedì Dante al settimo cielo: «me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine» (VN III)[1]. Beatrice, dunque, fu donna capace di suscitare in Dante le più intense emozioni. Così accadde anche il 19 Giugno 1290, data di morte della Portinari. Se il marito non impiegherà troppo tempo a risposarsi (con ciò rivelando la natura politica dell’unione precedente)[2], per Dante, invece, saranno necessari anni ed anni per riuscire ad elaborare il lutto. Nel cap. XXXI della Vita Nova, infatti, afferma: «li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia tristizia». Anche Firenze tutta sembrava piangere la perdita di Beatrice: «rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade» (VN XXX). Il poeta, consapevole che la guarigione dal dolore potrà essere ottenuta soltanto mediante la scrittura, alla fine della Vita Nova (XLII) annuncia il proposito «di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei … Sì che … io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». Tale proposito sarà portato a compimento nella Commedia, opera in cui Beatrice diventa simbolo della Teologia, tramite sublime fra l’uomo e la divinità e quindi strumento unico di salvezza.

[1] Dopo aver fatto ritorno a casa, il poeta si chiuse in camera per ripensare a quanto appena avvenuto, e nella notte sognò la donna nuda. Altro incontro degno di nota avvenne in occasione di un matrimonio, quando Dante, accortosi della presenza di Beatrice in sala, iniziò a tremare: un vero e proprio attacco panico colse il poeta, che dovette esser condotto via dagli amici lì presenti.

[2] «È evidente che il matrimonio di Beatrice aveva avuto un significato esclusivamente politico, di provvisoria riconciliazione tra due famiglie appartenenti a partiti diversi, e niente a che fare con i sentimenti, il che spiega perché nella storia d’amore con Beatrice che Dante intesse nelle sue opere manchi qualunque accenno alla gelosia» (Barbero 2020, 83).

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