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Marzia e Gemma, donne lontane dai mariti

Fig.1: ritratto di dama.

«Non son li editti etterni per noi guasti,

ché questi vive, e Minòs me non lega;

ma son del cerchio ove son li occhi casti

 

di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,

o santo petto, che per tua la tegni:

per lo suo amore adunque a noi ti piega».

(Purg. I 76-81)

 

Catone e Marzia, divisi nella morte

Il primo personaggio incontrato da Dante nella cantica intermedia è Catone l’Uticense, custode del Purgatorio descritto come «un veglio solo,/degno di tanta reverenza in vista … Lunga la barba e di pel bianco mista/portava, a’ suoi capelli simigliante,/de’ quai cadeva al petto doppia lista» (Purg. I 31-36). Illuminato in volto dalla luce delle quattro virtù cardinali, il politico romano viene connotato come figura positiva in quanto diede la vita per amore della libertà e, col proprio gesto estremo, costituì esempio d’incorruttibilità morale per tutti gli uomini a venire. In un primo tempo, l’Uticense crede che Dante e Virgilio siano fuggiti dall’Inferno, ma il poeta latino si affretta a precisare che non sono state violate le «leggi d’abisso» (v. 46) in quanto né Dante né Virgilio sono sottoposti alla legislazione infernale. Il primo, infatti, appartiene ancora al mondo dei vivi; il secondo si trova nel Limbo, ovvero in quel primo cerchio infernale che non rientra nella giurisdizione di Minosse (il giudice dell’Inferno sta sull’entrata del secondo cerchio).

Fig.2: Dante, Virgilio e Catone in un’illustrazione di Gustave Doré (1861 ca.).

Il discorso di Virgilio è molto efficace dal punto di vista retorico: infatti, la suasoria pronunciata per convincere Catone a lasciar passare i due pellegrini viene arricchita da un’abile captatio benevolentiae. Il poeta latino cita Marzia, la moglie di Catone, e promette di parlarle del marito: «lasciane andar per li tuoi sette regni;/grazie riporterò di te a lei,/se d’esser mentovato là giù degni» (vv. 82-84). Ma la risposta dell’Uticense mette in luce la sostanziale inutilità delle parole di Virgilio: Marzia ebbe potere su Catone finché i due furono in vita; ma quella donna «or che di là dal mal fiume dimora,/più muover non mi può» (vv. 88s.). Il viaggio di Dante è voluto direttamente da Dio, e questo elemento da solo basta a vincere le resistenze del guardiano, che certo non può ostacolare i piani celesti: «ma se donna del ciel ti muove e regge,/come tu di’, non c’è mestier lusinghe:/bastisi ben che per lei mi richegge» (vv. 91-93).

A questo punto, conviene spender qualche parola sul matrimonio tra Catone e Marzia. Senza dubbio, fu un’unione assai solida e compatta, come attesta lo stesso Dante quando fa dire all’Uticense che in vita fu sempre sollecito nel soddisfare ogni desiderio della consorte. Tuttavia, ad un certo punto Marzia fu ceduta in prestito ad un altro uomo. Appiano (Storia Romana II 14.99) narra che «Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata». Tale possibilità era ammessa dalla lex romana e, a quanto pare, fu sfruttata da Catone, sempre pronto a sacrificare i propri interessi personali per servire la res publica romana. Secondo Plutarco (Cato Minor XXV 4-9), l’Uticense sosteneva che «se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto». Morto Ortensio, Marzia tornò da Catone, pregandolo di riprenderla con sé. Di questo episodio, Dante ha dato un’interpretazione allegorica nel Convivio (IV 28.13-19): il ritorno di Marzia a Catone sarebbe allegoria dell’anima che, alla fine della propria vita, ritorna a Dio.

Dante e Gemma: il problema delle nozze, l’esilio, la separazione

In tempi piuttosto recenti, si è riacceso l’interesse della critica nei confronti del matrimonio tra Dante e Gemma. Pochissime sono le notizie biografiche sul conto della donna, che sicuramente apparteneva alla nobile casata dei Donati. Gemma, infatti, era cugina di Corso Donati, l’acerrimo nemico della fazione dei Cerchi (alla quale era legato Dante).

Ma quando avvennero le nozze? Dante, nelle proprie opere, non affronta mai tale argomento. Esiste, tuttavia, uno strano documento d’archivio secondo cui l’instrumentum dotis (l’atto subito precedente il matrimonio) era stato rogato il 9 febbraio 1276. L’indicazione è però palesemente errata, dal momento che a quella data Dante era appena undicenne! Pertanto, la data delle nozze va sicuramente spostata in avanti. Un buon terminus post quem viene fornito da Boccaccio, il quale, nel Trattatello in Laude di Dante (I 44), racconta che solo dopo la morte di Beatrice, e cioè nel 1290, i parenti di Dante «ragionarono insieme di volergli dar moglie». Dal momento che a quel tempo gli uomini si sposavano attorno ai 30 anni con donne più giovani di circa 15 anni, è possibile ipotizzare che le nozze fossero state celebrate nella metà degli anni Novanta. Secondo tale teoria, Gemma sarebbe nata intorno al 1280. La donna ebbe da Dante quattro figli: Giovanni, Iacopo, Pietro e Antonia.

Il trauma dell’esilio comportò per Dante anche il dolore della separazione dalla moglie. Gemma, infatti, poté rimanere a Firenze, dal momento che su di lei non pesava alcuna condanna. Riuscì a mantenere se stessa ed i figli grazie all’esercizio dei propri diritti dotali e al riacquisto di alcune delle proprietà confiscate al marito. La donna era ancora in vita alla morte del Sommo Poeta: un documento del 1329 attesta che in quell’anno ella reclamò la rendita prodotta dai propri beni dotali presso l’ufficio che gestiva le sostanze dei cittadini ribelli. Una simile richiesta è conservata anche per l’anno 1333. In un atto notarile del 9 gennaio 1343, Gemma è ricordata come già defunta.

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